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I rimedi per contrastare l'azione temeraria: una prima lettura interpretativa
Fonte: AltalexIn attesa di una pronuncia della Cassazione civile, sul nuovo (tanto discusso) comma III dell’art. 96 c.p.c., come introdotto dalla Legge 69/2009, è la Sesta sezione penale della Suprema Corte ad offrirne una prima lettura interpretativa (invero, in chiave sanzionatoria), richiamando, con chiaro monito, “l’attenzione, comprensione e diligenza del giudice”. Secondo il Collegio, non c’è dubbio che già il solo dovere difendersi in un giudizio civile, affrontandone comunque i costi di difesa notoriamente non indifferenti e i disagi conseguenti in termini di durata della pendenza e incertezza di soluzione, costituisca un obiettivo pregiudizio di fatto che, quanto l’azione da ci si deve difendere è solo strumentale, può essere per sé idoneo ad influire sulle scelte e le condotte professionali future del convenuto. Da qui l’esigenza di reperire, nell’Ordinamento, misure di contrasto particolarmente efficaci e, soprattutto, tali da “scoraggiare” effettivamente una lite solamente temeraria.
La verità è che l’abuso del processo causa un danno indiretto all’erario (per l’allungamento del tempo generale nella trattazione dei processi e, di conseguenza, l’insorgenza dell’obbligo al versamento dell’indennizzo ex lege 89/2001) e un danno diretto al litigante (per il ritardo nell’accertamento della verità) e va dunque senz’altro contrastato (v. Trib. Varese, sez. Luino, ord. 23 gennaio 2010 in Foro Italiano, 2010, 7–8, I, 2229). In tale contesto, si comprende perché il Legislatore del 2009 (legge n. 69) abbia introdotto un danno tipicamente punitivo nell’art. 96 comma III c.p.c. al fine di scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia (v. Trib. di Piacenza, sez. civ., sentenza 22 novembre 2010, est. Morlini in Guida al dir., 2011, 3). Infatti, la norma introdotta dalla Legge 18 giugno 2009 n. 69 nel terzo comma dell’art. 96 c.p.c. non ha natura meramente risarcitoria ma “sanzionatoria” (Tribunale di Piacenza, sez. civile, sentenza 7 dicembre 2010, est. Coderoni) come la prevalente giurisprudenza di merito ha ritenuto (v. anche Trib. Verona, ord. 1 ottobre 2010; Trib. Verona, ord. 1 luglio 2010; Trib. Verona, sez. III civ., sentenza 20 settembre 2010) là dove ha affermato che essa introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo (Tribunale di Roma, sez. XI civile, sentenza 11 gennaio 2010 in Giur. Merico, 2010, 9) e preservare la funzionalità del sistema giustizia (in questi termini, Trib. Prato 6 novembre 2009, Trib. Milano 29 agosto 2009), traducendosi, dunque, in “una sanzione d’ufficio” (Tribunale di Roma, sez. distaccata di Ostia, sentenza 9 dicembre 2010). Nella medesima direttrice ermeneutica si colloca la prevalente giurisprudenza di merito (v. Trib. Varese, sez. I civ., sentenza 30 ottobre 2009 in Giur. di Merito, 2010, 2, 431 e in Resp. civ., 2010, 387 ss..; v. Tribunale di Rovigo, sez. distaccata di Adria, sentenza 7 dicembre 2010, est. Martinelli) dove il nuovo istituto (art. 96, III c.p.c.) è qualificato in termini di «sanzione di natura pubblicistica, perché mira a punire il comportamento processuale della parte che viola il principio costituzionale della durata del giusto processo (poiché incide non solo sulla durata del singolo processo ma anche su tutti gli altri a catena)».Certa giurisprudenza, in particolare, ha recepito, in seno all’art. 96, comma III, c.p.c., la tesi del cd. «danno strutturato» ritenendo che il nuovo articolato, ove applicato contro il responsabile dell’abuso, compensa l’eventuale danno da irragionevole durata, subito dalla vittima dell’abuso, danno che avrebbe dovuto sostenere lo Stato ex Lege Pinto (tesi da ultimo sposata da: Trib. Varese, sentenza 22 gennaio 2011, n. 98 in www.ilcaso.it).A ben vedere, la linea interpretativa suggerita dalla sentenza qui in commento si colloca perfettamente nella direttrice ermeneutica appena illustrata poiché conduce ad intravedere nell’art. 96, comma III, c.p.c. non tanto una misura risarcitoria quanto una misura sanzionatoria.Resta il problema della destinazione della somma oggetto di sanzione (sia consentito citare: BUFFONE, Un “grimaldello normativo” in ambito civile per frenare la proliferazione di liti temerarie (nuovo art. 96 c.p.c.) in Guida al Diritto, 2010, 3, 50 e ss.). Il Legislatore, infatti, tutela un interesse pubblico ma riversa la sanzione in favore di un interesse privato perché la condanna viene “incassata” da una delle parti del processo (quella che subisce l’abuso). Vi è, allora, che il giudice, pur dovendo “punire” uno dei litiganti per un verso, non può però arricchire l’altro di riflesso. E, allora, il divieto di locupletazione rappresenta il limite implicito al quantum del danno. Ma ciò vuol dire che la sanzione può perdere totalmente efficacia persuasiva e deterrente: e, infatti, se il soggetto che abusa dispone di grandi patrimoni, dovendo sempre guardare al pregiudizio della controparte, ben può capitare che la sanzione (limitata dal divieto di locupletazione) sia di fatto irrilevante per il sanzionato.Da qui una certa irragionevolezza della norma.- se ha funzione risarcitoria, è irragionevole scriverla “in bianco”, senza cioè alcun parametro oggettivo di riferimento per la compensazione;
- se ha funzione punitiva, è irragionevole non prevedere che la somma sia destinata alla cassa delle Ammende piuttosto che alla parte privata.
Una cosa è certa: i magistrati sono chiamati alla comprensione, all’attenzione e alla diligenza: il processo civile – che come insegna l’Autore, è per sua natura “sofferenza” – deve divenire terreno in cui il giudice che rintraccia elementi di temerarietà, non compensa le spese, non agisce con inopportuna tolleranza ma, semplicemente, condanna.(Altalex, 17 febbraio 2011. Nota di Giuseppe Buffone)
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONESEZIONE VI PENALESentenza 11 febbraio 2011, n. 5300
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