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Call center: l'ultimo rifugio dei precari minacciato da schiere di non-immigrati
Vite in standby nei call center di tutta Italia. Di quest’universo composto, per lo più, da donne under-40 laureate e precarie, hanno parlato film, documentari, libri e inchieste giornalistiche. Guadagnano meno di mille euro al mese. Fanno orari massacranti. Eppure rischiano di vedersi soffiare il posto da «colleghi» albanesi, romeni e tunisini che parlano un italiano più stentato ma costano molto meno. E l'ultima frontiera del precariato, la delocalizzazione dei call center. Se ne parlerà nella «Terza conferenza nazionale delle lavoratrici e lavoratori dei call center» organizzata a Roma venerdì 18 e sabato 19 febbraio da Slc-Cgil (il principale sindacato del settore) per fare il punto sul settore. TELEFONI TRASFERITI ALL'ESTERO - La delocalizzazione colpisce anche il Lazio: spariscono posti nei call center perchè i centralini sono stati spostati all'estero, ed ora impiegano schiere di non-immigrati; extracomunitari (ma anche cittadini comunitari, come i romeni), che non hanno più bisogno di arrivare in Italia per trovare lavoro presso una società tricolore.
Alla conferenza di Roma, i delegati locali si ritroveranno insieme al Segretario della Cgil, Susanna Camusso, ad analizzare questo ed altri problemi di un settore duramente colpito dalla crisi (nel 2010 si sono persi 8mila posti di lavoro in tutta Italia) e avanzare nuove proposte. «Il Lazio è una delle regioni dove l’occupazione è più a rischio. Abbiamo diverse situazioni critiche che teniamo sotto osservazione», afferma Natascia Treossi, segretario Slc-Cgil di Roma e Lazio.
63 MILA ADDETTI IN ITALIA – Stando ai dati del sindacato aggiornati a settembre 2010, il comparto nazionale conta tra 63-64 mila addetti. Una buona fetta di questi, circa 11mila, lavora nei call center outsourcing (ovvero quelli che lavorano su commessa di grandi aziende) del Lazio. «La crisi continua a colpire – spiega la Treossi – nello scorso anno abbiamo perso 430 posti. A rischio poi, ci sono altri 1.100 lavoratori, circa il 10 per cento degli occupati nel settore in regione».
L’emergenza continua ancora oggi e «purtroppo, alcune situazioni si sono aggravate». Un esempio da manuale: «La protesta dei 118 lavoratori della Herla di Pomezia che, a ottobre, sono dovuti salire sul tetto e occupare il call center perché non venivano pagati da un anno – ricorda la sindacalista -. Abbiamo ottenuto la cassa integrazione in deroga a zero ore, ma è scaduta lo scorso 31 dicembre e aspettiamo che la Regione Lazio la rinnovi».CONTRATTI E COMMESSE – A mettere a rischio il settore sono i repentini fallimenti e cessioni di rami d’azienda dei call center in outsourcing. «La Slc-Cgil ha chiesto di legare i contratti alle commesse – spiega la Treossi - cosicché se l’azienda fallisce o viene ceduta, i lavoratori continueranno a svolgere le stesse mansioni, ma saranno pagati da chi subentra». Un esempio positivo è proprio a Pomezia, dove lo scorso dicembre si è chiusa la vertenza dei 146 lavoratori della Cronos: «Dopo una trattativa serrata sono stati assunti dalla nuova società Comdata – aggiunge –. Azienda e lavoratori hanno fatto sacrifici, ma siamo riusciti a garantire i posti di lavoro. Ed entro giugno saranno ricollocati anche i pochi addetti rimasti finora esclusi dall’accordo».IL «DUMPING» SALARIALE - Dietro alcuni fallimenti o cessioni, però, non si nasconde la crisi economica. Le società preferiscono delocalizzare il servizio in Paesi dove il salario costa meno (Albania, Romania e Tunisia appunto). «Vogliamo inserire una clausola sociale contro il dumping salariale nel contratto nazionale – dice la Treossi –, perché questa gara a ribasso non tutela né l’occupazione né la qualità del servizio».
In effetti, a rischio non è solo il lavoro in Italia (più costoso che altrove), ma anche la privacy. «La nostra normativa è molto garantista sul trattamento dei dati personali – conclude la sindacalista – ma non possiamo certo sapere se lo siano anche quelle albanesi, tunisine o romene. E non si tratta di un problema minore: molto spesso, al telefono forniamo dati sensibili come il numero della carta di credito o informazioni che riguardano la nostra salute».
Fonte: Corriere Sera
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