rassegna di notizie dal web utili alla difesa del cittadino
| 0 HOME 00|00 CHI SIAMO 00|00 ANGELO PISANI 00|00 CONTATTI 00| 000000000000000000000000000000000000
-
Reintegra al dipendente licenziato per ritorsione
Il carattere ritorsivo del licenziamento fa scattare l'obbligo di reintegra. Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza 21967/2010 secondo la quale il rifiuto di trasferirsi in un'altra sede non può essere "punito" con la sanzione massima, soprattutto quando il diniego è motivato dalla necessità di assistere il coniuge ammalato.
La decisione è stata originata dal ricorso presentato da una lavoratrice che ha impugnato di fronte al tribunale il proprio trasferimento, disposto dalla società, da una sede a un'altra in una diversa città, nonché il licenziamento successivamente intimatole, chiedendo la condanna alla reintegra nel posto di lavoro in assenza di un giustificato motivo oggettivo di recesso.
La ricorrente ha esposto ai giudici di aver collaborato nell'impresa in un primo tempo con contratto di formazione e lavoro e di essere stata successivamente assunta a tempo indeterminato svolgendo sempre le stesse mansioni. In seguito, a causa delle condizioni di salute del marito, affetto da un grave handicap, è stata ammessa dall'Inps al godimento della agevolazioni della legge 104. Dopo averne informato il datore di lavoro sono però cominciati i problemi. Infatti, pochi giorni dopo aver comunicato la notizia, la lavoratrice è stata trasferita presso la sede di un'altra città, costringendola a tempi superiori di percorrenza per raggiungere il lavoro e impedendole, di fatto, di accudire il marito.Poco prima dell'udienza di comparizione in sede cautelare un altro colpo di scena. Il datore di lavoro ha revocato il trasferimento e licenziato la donna con decorrenza immediata, motivando la decisione con la necessità di procedere a una riorganizzazione aziendale.Il tribunale ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento condannando la società alla riassunzione o al risarcimento del danno. La lavoratrice, non soddisfatta del verdetto, ha proposto appello sostenendo che il licenziamento aveva carattere ritorsivo e chiedendo la reintegra nel posto di lavoro.I giudici di secondo grado hanno accolto la richiesta della donna dichiarando illegittimi sia il trasferimento sia il successivo recesso. Le mansioni cui era addetta la ricorrente, hanno spiegato, sono state svolte in ambito aziendale per almeno un altro anno dal licenziamento, il che fa emergere che entrambe le misure adottate erano pretestuose e non dettate dalla necessità di riorganizzare il lavoro.
Contro questa sentenza la società ha presentato ricorso alla Suprema corte sostenendo, al contrario, che il trasferimento era dettato dalla contrazione di lavoro nella sede di appartenenza, dove le mansioni assegnate alla donna erano state parzialmente soppresse, e da un consistente incremento di attività in quella di destinazione.Non solo. L'aspetto del riassetto organizzativo, attuato per realizzare una gestione più economica, sarebbe riconducibile alla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento con la conseguenza che il giudice non potrebbe sindacare le scelte effettuate.La Cassazione non ha accolto nessuno degli argomenti portati avanti dalla società. In particolare i giudici hanno affermato che l'impiego di alcuni lavoratori a termine, assunti per altre attività, nelle mansioni che la donna aveva sempre svolto, doveva indurre l'azienda ad assegnare alla lavoratrice anche i nuovi compiti in alternativa al licenziamento. Quanto poi alla sindacabilità delle scelte aziendali la Cassazione ha affermato che l'assetto organizzativo e produttivo dell'impresa è rimesso alla valutazione del datore di lavoro. Tuttavia la libertà di iniziativa privata non può svolgersi in modo da recare danno alla libertà e dignità umana. Questo limite trova riscontro nella legislazione del lavoro in varie circostanze caratterizzate dalla necessità di tutelare i diritti fondamentali del lavoratore, tra cui quello relativo alla conservazione del posto, con la conseguenza che deve essere punito ogni recesso privo di giusta causa o giustificato motivo. In questo contesto, ha concluso la Cassazione, appare evidente come il licenziamento in esame trovi «la sua ragion d'essere solo ed unicamente nella volontà di sanzionare la dipendente per essersi "ribellata" al provvedimento di trasferimento» e che quindi debba essere disposta la sua immediata reintegrazione nel posto di lavoro.


0 commenti: