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  • Responsabilità penale del datore per l'assunzione di lavoratori stranieri irregolari

    Fonte: http://www.altalex.com  
    La Cassazione conferma l’onere di verifica della regolare presenza dello straniero a carico del datore di lavoro.

    La recente Direttiva n. 2009/52/CE, disponendo in merito all’introduzione di “norme minime relative a sanzioni e provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”, stabilisce che gli Stati membri introducano, tra gli obblighi del datore di lavoro, il dovere di esigere dal prestatore cittadino di uno stato terzo che lo stesso “possieda e presenti […] un permesso di soggiorno valido, o un’altra autorizzazione di soggiorno”[1] prima della costituzione del rapporto, nonché l’onere, per lo stesso datore, di tenere copia o registrazione della suddetta documentazione “a disposizione delle autorità competenti degli Stati membri, ai fini di una eventuale
    ispezione”; la Direttiva, che dispone l’adozione di norme conformi entro il 20 luglio 2011, è stata necessitata dall’assenza di un adeguato apparato sanzionatorio in taluni Stati membri.
    Tra questi paesi non figura l’Italia, in cui Il legislatore, introducendo nel 1998 il "Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero"[2], statuiva in materia di ingresso, soggiorno e instaurazione del rapporto di lavoro extracomunitario in Italia e forniva il relativo, importante, apparato sanzionatorio, dalla ”doppia natura”[3].
    Tra le fattispecie di reato disciplinate nel Decreto Legislativo del ‘98, rileva (non tanto per la gravità del fatto quanto per la frequenza delle contestazioni) quella delineata dall’art. 22, comma 12, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286[4], che sanziona la condotta del datore di lavoro, imprenditore o privato cittadino[5], il quale occupi alle proprie dipendenze (anche per attività a carattere stagionale) lavoratori extracomunitari sprovvisti del permesso di soggiorno, ovvero il cui permesso sia stato annullato, dall’autorità amministrativa o giudiziaria, revocato ovvero scaduto senza richiesta tempestiva di rinnovo dello stesso, comminando, per i fatti avvenuti successivamente al 25 luglio 2008, congiuntamente la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e la multa di 5.000 euro per ciascun lavoratore impiegato[6]; alla iniziale configurazione del reato come contravvenzione, punibile per colpa[7], si è approdati alla più grave configurazione del delitto, punito a titolo di dolo generico.
    Con sentenza 8 luglio 2010, n. 25990, la Prima Sezione Penale della Cassazione ha affermato che “è onere del datore di lavoro verificare” il possesso del permesso di soggiorno, ovvero del documento assimilato, “indipendentemente dalle asserzioni e aspettative di colui al quale viene data occupazione (cfr. al riguardo Sez. 1, 25/10/06, Grimaldi, rv.235.083)”[8].
    Nel caso di specie la Corte ha respinto tutte le doglianze dell’imputato; l’uomo era stato assolto in primo grado sugli assunti che il lavoratore extracomunitario avesse prestato la propria opera per un lasso temporale esiguo e avesse garantito di aver richiesto il premesso di soggiorno; d’altro canto la corte riconosceva al datore di lavoro di non aver perseguito finalità di ingiusto profitto.
    In Cassazione la parte impugnava la sentenza di condanna della Corte di Appello di Genova, deducendo violazione di legge per carenza di elementi soggettivi e oggettivi del reato; quanto al primo profilo i Giudici hanno precisato che la norma non prevede «che il soggetto attivo persegua finalità di ingiusto profitto» (è sufficiente, come già detto, la presenza di dolo generico[9]), mentre in relazione all’elemento oggettivo[10] la Suprema Corte ha confermato che “la stabilità del rapporto di lavoro non è requisito richiesto dalla norma incriminatrice di cui all’art. 22, comma 12, d.lgs. n. 286 del 1998 e la durata delle prestazioni effettuate non ha rilievo”[11] essendo il reato, sotto un profilo sostanziale, consumato nel momento stesso in cui il lavoratore straniero venga occupato dal datore[12].
    In conclusione la Suprema Corte ha ricordato che “solamente la regolare presenza in Italia dello straniero, che è onere del datore di lavoro verificare indipendentemente dalle asserzioni e aspettative di colui al quale viene data occupazione (cfr. al riguardo Sez. 1, 25/10/06, Grimaldi, rv.235.083), esclude la sussistenza del reato”.
    (Altalex, 28 settembre 2010. Nota di Alessandra Pignotti)
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    [1] Art. 1, Comma1, lettera a, Dir. 2009/52/CE.

    [2] Vedi D.Lgs. n. 286/1998.

    [3] Coesistono illeciti e sanzioni penali e, in misura ridotta, illeciti e sanzioni amministrativi.

    [4] Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5000 euro per ogni lavoratore impiegato.

    [5] Nell’ipotesi in cui sia parte di un rapporto di lavoro di collaborazione domestica o assimilati.

    [6] Così a seguito delle modifiche apportate dal D.L. 92/2008 che ha trasformato il reato da contravvenzione a delitto; per fatti commessi sino al 25/07/2008, si applica congiuntamente la pena dell’arresto da tre mesi ad un anno e l’ammenda di euro 5.000 per ogni lavoratore impiegato.

    [7] Pur in assenza di imprudenza o negligenza.

    [8] Così Cass. Pen., Sez. I, n. 37409/2006 secondo cui non “può invocare la propria buona fede il datore di lavoro che abbia occupato alle proprie dipendenze un cittadino straniero privo di permesso di soggiorno pur se lo straniero gli abbia mostrato la relativa richiesta”.

    [9] Così Cass. Pen., Sez. I, n. 10402/2010.

    [10] La difesa deduceva il mancato perfezionamento del rapporto lavorativo.

    [11] Così Cass. Pen., Sez. I, n. 2539/2005 e n. 27508/2008.
    [12] Così Cass. Pen., Sez. I, n. 37409/2006 nel caso di uno straniero assunto in prova.


    SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
    SEZIONE I PENALE
    Sentenza 8 luglio 2010, n. 25990

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