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  • La lite finisce dall'arbitro

    Ampio spazio, quanto meno nell'intento del legislatore, al l'arbitrato per decidere le controversie di lavoro tanto è vero che strade diverse potranno condurre alla giustizia privata. Così, a seguito di un (in tutto o in parte) infruttuoso tentativo di conciliazione esperito dalla Direzione provinciale del lavoro cui si sono rivolti datore di lavoro e lavoratore, questi ultimi potranno conferire alla stessa un mandato per decidere la questione in qualità di arbitri. Oppure, insorta la controversia, le parti, anziché adire l'autorità giudiziaria o esperire il tentativo (ormai facoltativo) di conciliazione, potranno direttamente chiedere la costituzione di un collegio arbitrale. Obbligate, invece, a utilizzare questo strumento, in alternativa alla giustizia ordinaria, con l'esclusione – si noti bene – delle materie attinenti alla «risoluzione del rapporto», le parti che hanno pattuito una clausola arbitrale. 
    In tutti questi casi le parti potranno chiedere espressamente agli arbitri di decidere secondo equità «nel rispetto – recita il Collegato lavoro, legge 183/2010 in vigore da dopodomani – dei principi generali dell'ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari». 
    Si suole definire l'equità come «la giustizia del caso singolo» e differenziare il relativo giudizio da quello di diritto (specifica e puntuale applicazione delle norme). 
    Un punto è certo: il giudizio di equità non è avulso dalle norme e non significa giudizio arbitrario e personale. La stessa Corte costituzionale ha avuto modo di precisare che l'equità non assurge a fonte autonoma e alternativa alla legge, ma consente al giudicante (nel caso esaminato dalla corte regolatrice, il giudice di pace) di individuare anche eventuali norme non scritte che, in relazione al caso concreto, consentano una soluzione più adeguata, tenuto conto però dei principi cui si ispira il diritto che disciplina la medesima fattispecie. 
    Insomma, anche nel giudizio di equità il diritto deve guidare gli arbitri che pur tuttavia vi si potranno discostare ove la soluzione fornita da un'applicazione puntuale delle norme non fosse adeguata, tenuto conto della ratio delle stesse, della comune sensibilità sociale, morale ed economica del luogo e del tempo nonché delle peculiarità del caso di specie.


    Quanto lontana potrà essere la decisione equitativa rispetto a quella di diritto resta però un punto aperto. Le diverse interpretazioni ad oggi fornite (in ambito diverso dal diritto del lavoro) sul giudizio di equità lo dimostrano: l'arbitro può, individuata una norma, farne derivare conseguenze diverse, o può ricondurre a una norma (applicandone dunque gli effetti) anche fattispecie diverse (cui per esempio mancano degli elementi costitutivi). 
    In teoria, in ipotesi di licenziamento illegittimo gli arbitri, pur in presenza dei requisiti dimensionali previsti dalla legge, potrebbero, se rispondesse ad equità, non disporre la reintegrazione nel posto di lavoro, prevista dall'articolo 18 dello Statuto del lavoro, riconoscendo in alternativa un adeguato risarcimento del danno, o, e al contrario, in assenza dei requisiti dimensionali potrebbero reintegrare il dipendente del posto di lavoro. 
    Il limite restano i principi generali dell'ordinamento e della materia e si tratterà poi, a ben vedere, in che misura le norme del diritto del lavoro (per lo più inderogabili e imperative) verranno interpretate come espressione di principi generali e quindi limite al potere equitativo arbitrale.
    Per la verità, nel diritto del lavoro, non mancano casi in cui la ratio della norma e la valutazione del complessivo contesto conducono a decisioni diverse da quelle cui dovrebbe portare un'applicazione del tenore letterale della disposizione legislativa. L'articolo 2103 del Codice civile, che riconosce il diritto a mansioni equivalenti, dispone «ogni patto contrario è nullo», eppure i giudici, anche quelli della Suprema corte, ammettono la legittimità del patto di demansionamento (anche al di fuori delle procedure di mobilità) se finalizzato a salvare il posto di lavoro del dipendente. 
    Forse l'equità è più vicina di quanto non si immagini ma le soluzioni che potrebbe comportare sono certamente più incerte ed è forse ciò che potrebbe spaventare le parti (e non il solo il lavoratore). 
    L'equità coinvolge necessariamente la fiducia in chi sarà in concreto chiamato ad amministrarla così che alla fine, per parafrase, Otto von Bismarck (Discorsi, 1862/66), servono più buoni funzionari che buone leggi.



    Giustizia ordinaria esclusa se si pattuisce la clausola arbitrale
    Da Ccnl/accordi interconfederali Quando?
    Da decreto
    ministeriale
    Al superamento
    del periodo di prova
    Esecuzione del rapporto per un periodo superiore a 30 giorni
    Stipula
    per iscritto
    Certificazione

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