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  • Offese negli scritti difensivi? Non costituiscono giusta causa di licenziamento



    Fonte: Altalex          
    Non costituisce una giusta causa di licenziamento il contenuto dell'atto con cui un lavoratore si costituisce in giudizio per resistere contro il datore di lavoro, nonostante la sconvenienza ed offensività delle espressioni ivi contenute.
    Tale principio è stato riaffermato dalla sentenza in epigrafe.
    In particolare, i giudici di legittimità hanno sottolineato come l'atto introduttivo o le memorie difensive, depositate nell’ambito di un procedimento civile, siano atti giudiziari a cui si applica la causa di non punibilità per le eventuali offese ivi contenute che riguardino l'oggetto della causa.
    Ciò in quanto tali atti sono stati posti in essere nell’esercizio del diritto di difesa, oggetto dell'attività del difensore tecnico.

    Conseguentemente, sebbene le espressioni sconvenienti ed offensive, contenute negli iscritti difensivi siano soggetti alla disciplina prevista dall’art. 89 c.p.c., nelle ipotesi in questione trova applicazione la causa di non punibilità, stabilita dall'art. 598 c.p. per le offese contenute negli scritti presentati dinanzi all'Autorità Giudiziaria.
    Tali espressioni, però, ha precisato la Suprema Corte, si devono riferire in modo diretto ed immediato all'oggetto del processo.
    (Altalex, 18 gennaio 2011. Nota di Elena Salemi)

    SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
    SEZIONE LAVORO
    Sentenza 13 dicembre 2010, n. 25146
    Svolgimento del processo
    Con ricorso notificato il 13-14 dicembre 2007, la Marvecspharma Services s.r.l. ha chiesto, con quattro motivi, la cassazione della sentenza depositata in data 27 settembre 2007 e notificata il 17 ottobre successivo, con la quale la Corte d'appello di Milano aveva confermato la decisione del locale Tribunale, che aveva accolto le domande di A.F. e degli altri 13 litisconsorti in epigrafe indicati di annullamento del licenziamento per giusta causa loro intimato dalla società con lettere del 21 ottobre 2005 sulla base della contestazione di avere rivolto, in un ricorso ex art. 414 c.p.c. avanti al Tribunale di Milano, "gravi false e infondate accuse alla nostra società, attribuendole presunte e pretese violazioni di norme di legge nonchè accusandola di avere perpetrato comportamenti illeciti a danno dei dipendenti in occasione dell'acquisto del ramo di azienda al quale ella era addetto dalla società Pharmacia Italia s.r.l. e inoltre rivolto frasi offensive e denigratorie nei confronti della nostra società e dei suoi massimi vertici".
    A. e gli altri litisconsorti resistono alle domande con rituale controricorso.
    Ambedue le parti hanno infine depositato una memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
    Si è costituita in giudizio anche la Pfizer Italia s.r.l., originariamente evocata in giudizio dai lavoratori, ribadendo il proprio difetto di legittimazione passiva nel presente giudizio.
    Motivi della decisione
    1 - Col primo motivo, la società deduce la nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c..
    La ricorrente sostiene in proposito che la Corte territoriale, così come il giudice di primo grado, avrebbero omesso ogni pronuncia sulla deduzione della società in appello, secondo la quale il comportamento contestato ai lavoratori e posto a fondamento del licenziamento per giusta causa non fosse quello di avere agito in giudizio contro il datore di lavoro prospettando tesi giuridiche rivelatesi poi infondate, bensì quello di aver fatto pubblicamente gravissime e false affermazioni riguardo alla serietà e solidità della società esponente, successivamente ribadite e confermate anche in sede di procedimento disciplinare.
    Inoltre la sentenza avrebbe omesso ogni pronuncia anche in ordine ai motivi di appello riguardanti la non necessità di un danno effettivo all'immagine aziendale ai fini della lesione del vincolo fiduciario e l'irrilevanza della mancata condanna dei ricorrenti ex art. 96 c.p.c..
    2 - Col secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c., artt. 2104, 2105, 2106, 2119 e 2697 c.c. L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 nonchè il vizio di motivazione.
    La società sostiene in proposito che l'errore denunciato col primo motivo in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata, ove dovesse essere ritenuto derivare dalla interpretazione del contenuto o dell'ampiezza della domanda, comporterebbe la violazione delle norme di legge indicate in rubrica e il vizio di motivazione su di un fatto decisivo.
    Il comportamento contestato sarebbe stato infatti potenzialmente tale da ledere la fiducia sulla puntualità dell'adempimento da parte dei dipendenti, tutti informatori medico-scientifici in ordine ai prodotti della società, che pertanto avevano il compito fiduciario di promuovere insieme all'immagine stessa della società sul mercato.
    Sarebbe poi irrilevante che le riferite affermazioni fossero state proferite all'interno di un atto giudiziario, in quanto con la contestazione disciplinare la società aveva inteso estrapolare le stesse dall'ambito processuale per valutarle sul piano strettamente disciplinare, ove le difese svolte dai lavoratori avrebbero dimostrato l'assunzione in proprio di quelle affermazioni false e ingiuriose, in quanto non smentite o ridimensionate.
    In ogni caso il comportamento tenuto dai ricorrenti avrebbe travalicato i limiti di continenza sostanziale del diritto di critica, compromettendo il rapporto fiduciario.
    La sentenza sarebbe altresì viziata nella parte in cui aveva ritenuto superfluo verificare la veridicità dei fatti oggetto delle dichiarazioni false dei lavoratori e "che dalla esposizione di essi sia derivato un danno, anche all'immagine del datore di lavoro....
    Nella specie non emergente".
    In proposito la ricorrente assume la rilevanza degli omessi accertamenti e richiama la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla possibile irrilevanza della produzione in concreto di un danno ai fini della valutazione della gravità del fatto contestato, specie in situazioni di particolare intensità del rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, come sarebbe verificabile con riferimento al rapporto degli informatori medico scientifici.
    3 - Col terzo motivo, la società deduce la violazione dell'art. 89 c.p.c., artt. 51 e 598 c.p., artt. 2106 e 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 e il vizio di motivazione della sentenza impugnata.
    Denuncia la contraddittorietà della sentenza che in un primo momento aveva valutato che le affermazioni ingiuriose dei ricorrenti non avevano a che fare con la vicenda circolatoria oggetto di quel giudizio in cui erano state fatte e poi erroneamente aveva detto che, in una logica più ampia e piena dell'attività difensiva, tali affermazioni avrebbero avuto il significato di richiamare l'attenzione del giudice sul fatto che il mutamento della titolarità del rapporto non era per loro un fatto irrilevante, ma fonte di preoccupazione per il futuro e pertanto utili alla difesa in quel giudizio in cui si contestava il trasferimento di azienda.
    La società contesta tale valutazione, riproducendo ancora una volta il contenuto di alcune di tali frasi del ricorso ex art. 414 c.p.c. introduttivo di quella diversa causa e concludendo che non avrebbero nulla a che vedere con le preoccupazioni per il futuro dei lavoratori.
    Insiste che viceversa si tratterebbe di comportamenti illeciti sul piano disciplinare, tali da porre in dubbio il corretto svolgimento nel futuro della attività di lavoro di coloro che li avevano posti in essere.
    4 - Col quarto motivo, la società deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 2118 e 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 e il vizio di motivazione della sentenza, laddove i giudici dell'appello avevano escluso la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento "anche alla stregua del principio di proporzionalità".
    In proposito, richiamando la giurisprudenza di questa Corte in materia di proporzionalità della sanzione disciplinare, la ricorrente sostiene che sarebbe indubbio, alla luce dei fatti esposti, che i comportamenti contestati sono tali da integrare una giusta causa o, in subordine, un giustificato motivo soggettivo di licenziamento.
    Il ricorso va esaminato unitariamente, perchè in esso le varie censure con le relative argomentazioni si rincorrono e si ripetono nel corso dei vari motivi in cui esso è articolato.
    Anzitutto, va rilevato che nel quesito di diritto di cui al primo motivo -che ai sensi dell'art. 366-bis c.p.c., applicabile al ricorso in parola ratione temporis, delimita l'ambito delle censure del motivo - la pretesa violazione dell'art. 112 c.p.c. viene riferita unicamente alla mancata pronuncia sulla prima delle due deduzioni di omessa pronuncia riferite.
    Senonchè, il fatto che i resistenti avessero confermato in sede di procedimento disciplinare le affermazioni false e gravemente offensive nei confronti della società non risulta dagli atti essere stato posto a motivo de licenziamento, che fa riferimento esclusivamente alla precedente contestazione (che segna il perimetro immutabile dell'oggetto del procedimento disciplinare) di un ricorso ex art. 414 c.p.c. promosso dai ricorrenti e contenente tali affermazioni.
    Inoltre, in violazione della regola della autosufficienza del ricorso per cassazione (su cui cfr., per tutte, recentemente, Cass. nn. 4201/10, 6937/10, 10605/10 e 11477/10), la società non precisa il contenuto delle difese svolte dai lavoratori in sede di procedimento disciplinare, limitandosi a riferire di una lettera inviata dal loro avvocato contenente, secondo la ricorrente, "giustificazioni inconferenti e comunque inaccoglibili rispetto ai fatti contestati" ed esprimente la valutazione che l'apertura del procedimento disciplinare sarebbe altamente discriminatorio in quanto volto a ledere i diritti sostanziali e processuali dei suoi assistiti.
    Conseguentemente, il rilievo formulato in appello dalla società è stato evidentemente interpretato dalla Corte territoriale come non essenziale nell'economia delle tesi difensive da questa svolte e correttamente i giudici si sono limitati a valutare la ricorrenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo del licenziamento alla luce dei fatti contestati, escludendola.
    A quest'ultimo proposito, i giudici di merito hanno richiamato e fatto corretta applicazione del principio di diritto affermato da questa Corte anche recentemente con sentenza 26 gennaio 2007 n. 1757, che questo collegio condivide.
    Secondo tale orientamento, "Non può concretare la condizione della giusta causa legittimante il licenziamento di un lavoratore il contenuto di un alto introduttivo o di una memoria difensiva depositati dallo stesso per promuovere o resistere in un giudizio, ancorchè esso ponga riferimento ad espressioni sconvenienti od offensive, le quali sono soggette, invero, alla disciplina prevista nell'art. 89 c.p.c.. Tale documento giudiziario costituisce, de resto, un atto riferibile all'esercizio del diritto di difesa, oggetto dell'attività del difensore tecnico, al quale si applica la causa di non punibilità stabilita dall'art. 598 c.p. per le offese contenute negli scritti presentati dinanzi all'A.G. qualora esse concernano l'oggetto della causa, che costituisce applicazione estensiva del più generale principio posto dall'art. 51 c.p. (individuante la scriminante dell'esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) applicabile anche alle offese rinvenibili negli atti difensivi del giudizio civile, a condizione, però, che riguardino sempre l'oggetto de processo in modo diretto ed immediato".
    Con valutazione di merito, incensurabile in cassazione in quanto congruamente motivata, la Corte d'appello di Milano ha appunto ritenuto che le espressioni eventualmente offensive (comunque incontestabilmente espresse in forma civile) utilizzate dal difensore degli appellati in un diverso ricorso ex art. 414 c.p.c., che contestava la validità e efficacia del trasferimento all'appellante del ramo di azienda cui essi erano addetti, fossero, ad un più approfondito esame, funzionali alla difesa svolta dal loro avvocato e pertanto non censurabili o comunque non censurabili con un licenziamento, ritenuto sicuramente sproporzionato.
    Da tale valutazione discende poi coerentemente il giudizio di irrilevanza di una verifica della veridicità o meno di quei fatti oggetto delle dichiarazioni in giudizio e dell'effettivo prodursi di un danno in conseguenza di essi.
    Queste conclusioni sono contestate dalla ricorrente con le censure di violazione di legge e di vizio di motivazione illustrate.
    In proposito, va premesso che, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte, cui il collegio intende dare continuità, la giusta causa di licenziamento di cui all'art. 2119 c.c., quale fatto "che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", è una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare le clausole generali come quella dell'art. 2119 c.c., che, in tema di licenziamento per giusta causa, detta una tipica "norma elastica", non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale, poichè l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie sì colloca (cfr., per tutte, Cass. 12 agosto 2009 n. 18247 e 15 aprile 2005 n. 7838 nonchè, con riferimento ad altre clausole generali, Cass. 6 aprile 2006 n. 8017).
    Analogo discorso è riferibile alla nozione legale di proporzionalità della sanzione disciplinare, anch'essa evocata nel presente giudizio.
    Ciò premesso in via di principio, si rileva che nel caso in esame la ricorrente, con le censure riassunte, non procede alla estrazione dalla applicazione che la sentenza impugnata fa della nozione di giusta causa e di quella di proporzionalità della sanzione disciplinare di cui all'art. 2106 c.c. una specificazione puntuale ed astratta per poi censurarla ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto errata in diritto e contrastante con l'integrazione della norma operata dalla giurisprudenza di questa Corte, ma si limita, invocando tale giurisprudenza nelle sue molteplici esplicazioni, a rivalutare i fatti di causa - con argomentazioni già ampiamente sviluppate in grado di appello e a cui la sentenza ha fornito adeguate, seppur sintetiche risposte, dimostrando di avere tenuto conto del complesso di quelle argomentazioni - ed a concludere nel senso della riconducibilità del fatto alla fattispecie legale considerata.
    Con tale operazione, la ricorrente, limitando sostanzialmente le proprie censure alla motivazione della sentenza impugnata (nonostante la formale deduzione di vizi di violazione di legge), tenta in realtà in maniera inammissibile di proporre a questa Corte una diversa valutazione di merito in ordine ai fatti e alle prove operata nei due gradi di giudizio.
    Alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso si rivale manifestamente infondato e va pertanto respinto, con la condanna della società ricorrente a rimborsare ai lavoratori le spese di questo giudizio (liquidate in dispositivo) e con la compensazione di quelle ulteriori riferibili alla presenza in giudizio della società Pfizer Italia s.r.l..
    Resta assorbito l'esame della richiesta formulata in via gradata dai lavoratori controricorrenti.
    P.Q.M.
    La Corte rigetta il ricorso, condanna la ricorrente a rimborsare ad A. e agli altri 14 litisconsorti le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 91,00 per esborsi ed Euro 6.000,00, oltre accessori di legge, per onorari, compensando le ulteriori spese.

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