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Onorari forensi italiani? Libere tariffe in libero Stato
Il ricorso della Commissione muove dalla premessa secondo la quale la normativa italiana conterrebbe disposizioni che impongono agli avvocati l’obbligo di rispettare tariffe massime.Alla luce dell’argomento della Commissione esposto nel ricorso e presentato in udienza, è possibile constatare che la Commissione addebita alla Repubblica italiana non l’esistenza di tariffe massime obbligatorie in relazione alla liquidazione delle spese da parte dell’autorità giudiziaria, che è esplicitamente prevista dall’art. 60 del regio decreto legge, ma piuttosto l’obbligo di rispettare siffatte tariffe in un rapporto fra avvocato e cliente, in quanto tale obbligo limiterebbe la libertà di negoziazione del compenso degli avvocati.
Se ciò avvenisse, vale a dire se la normativa italiana contenesse effettivamente disposizioni che impongono agli avvocati l’obbligo di rispettare tariffe massime nei rapporti con i loro clienti, non sarebbe molto difficile, basandosi sulla sentenza Cipolla e a. nella quale la Corte ha qualificato un obbligo analogo avente ad oggetto il rispetto di tariffe minime come una restrizione alla libera prestazione di servizi, ammettere che l’obbligo in questione costituirebbe una restrizione alla libera prestazione dei servizi, e persino alla libertà di stabilimento, di modo che toccherebbe quindi alla Repubblica italiana provare che tale restrizione può essere giustificata da obiettivi di interesse generale.Orbene, la Repubblica italiana nega per l’appunto l’esistenza di siffatto obbligo che sarebbe imposto agli avvocati di rispettare tariffe massime nei rapporti con i loro clienti.Per tale motivo, prima di esaminare se l’obbligo per gli avvocati di rispettare tariffe massime costituisca una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’art. 43 CE, nonché una restrizione alla libera prestazione di servizi ai sensi dell’art. 49 CE, l'avvocato generale ha analizzato innanzitutto la questione se l’ordinamento giuridico italiano contenga effettivamente l’obbligo menzionato.La tariffa italiana per le attività degli avvocati che fissa, per ciascun atto o serie di atti, un limite massimo e un limite minimo, è già stata esaminata dalla Corte tre volte.La prima volta fu in occasione della sentenza Arduino, nella quale la Corte ha esaminato il procedimento di adozione della tariffa che fissa minimi e massimi rispetto agli artt. 10 CE e 81 CE, al fine di verificare se detta tariffa costituisse una misura statale o una decisione di intervento di un operatore privato in materia economica.In tale occasione, la Corte ha dichiarato che gli articoli summenzionati del Trattato CE non ostavano a che uno Stato membro adottasse una misura legislativa o regolamentare che approvasse, in base ad un progetto stabilito da un ordinamento professionale di avvocati, una tariffa che fissa minimi e massimi per gli onorari dei membri della professione
La stessa constatazione figura nella sentenza Cipolla e a. .
In tale sentenza, oltre alla conformità della tariffa italiana degli onorari dell’avvocato con quanto richiesto dal diritto comunitario della concorrenza, la Corte ha anche esaminato la questione del rapporto fra il divieto assoluto della deroga, in via pattizia, agli onorari minimi fissati da detta tariffa e il principio della libera prestazione di servizi.Al riguardo la Corte ha osservato che un divieto del genere costituiva una restrizione alla libera prestazione di servizi che può, in via di principio, essere giustificato dagli obiettivi di tutela dei consumatori e di buona amministrazione della giustizia.La Corte ha lasciato al giudice nazionale il compito di verificare se la normativa italiana di cui trattasi rispondesse effettivamente ai menzionati obiettivi e se le restrizioni da essa imposte non risultassero sproporzionate rispetto a detti obiettiviInoltre, nell’ordinanza Hospital Consulting e a., la Corte ha reiterato la sua posizione quanto alla conformità della tariffa italiana degli onorari di avvocati con quanto richiesto dal diritto comunitario della concorrenza.In tale causa le questioni pregiudiziali deferite alla Corte riguardavano il divieto posto al giudice, quando si pronuncia sull’importo delle spese che la parte soccombente deve rimborsare all’altra parte, di derogare agli onorari minimi fissati da tale tariffa.Tanto nella sentenza Cipolla e a. quanto nell’ordinanza Hospital Consulting e a., l’argomento della Corte ha riguardato soltanto il divieto di derogare agli onorari minimi.Le dette pronunce non esaminano affatto l’eventuale divieto di derogare agli onorari massimi nonostante il fatto che, nella causa che ha dato luogo alla sentenza Cipolla e a., il giudice del rinvio avesse chiesto alla Corte di pronunciarsi sulla compatibilità del principio del divieto assoluto di derogare agli onorari degli avvocati col principio della libera prestazione di serviziAl momento dei fatti che hanno dato luogo alle citate sentenze Arduino e Cipolla e a. nonché all’ordinanza Hospital Consulting e a., citata supra, non si poteva negare l’esistenza di un divieto di derogare agli onorari minimi.Tale divieto era esplicitamente formulato dall’art. 24 della legge n. 794/1942 e sanzionato dalla nullità di qualsiasi accordo derogatorio, nonché dall’art. 4, n. 1, del decreto ministeriale n. 127/2004, ai sensi del quale le tariffe minime stabilite per gli onorari d’avvocato sono inderogabiliL’obbligo di rispettare tariffe minime e, quindi, l’obbligatorietà di dette tariffe sono stati aboliti dal decreto legge n. 223/2006, che deroga così, in quanto lex posterior, alla legge n. 794/1942 nonché al decreto ministeriale n. 127/2004.Alla guisa dell’esistenza del divieto di derogare agli onorari minimi al momento dei fatti che hanno dato luogo alle citate sentenze Arduino e Cipolla e a. nonché all’ordinanza Hospital Consulting e a., citata supra, non si può neanche negare l’esistenza delle tariffe massime per le attività degli avvocati nella normativa italiana.Tuttavia, ciò non è quanto viene addebitato alla Repubblica italiana da parte della Commissione.La Commissione critica infatti l’obbligatorietà delle tariffe massime nei rapporti fra avvocati e clienti in quanto essa costituisce un limite alla libertà contrattuale di questi ultimi.Secondo la Commissione, la normativa italiana di cui trattasi vieterebbe agli avvocati di derogare, in via pattizia, alle tariffe massime.Al riguardo va ricordato che la Repubblica italiana non è l’unico Stato membro il cui ordinamento giuridico preveda una tariffa che fissa limiti minimi e massimi per gli onorari di avvocati.Tale tariffa può svolgere un ruolo moderatore a tutela dei cittadini contro la fissazione di onorari eccessivi e consentire di conoscere in anticipo le spese legate ai servizi forniti dagli avvocati, tenuto conto in particolare dell’asimmetria di informazioni fra avvocati e clienti.L’asserita obbligatorietà delle tariffe massime che sarebbero applicabili, secondo la Commissione, alle attività degli avvocati in forza in particolare degli artt. 57 e 58 del regio decreto legge, dell’art. 24 della legge n. 794/1942, dell’art. 13 della legge 9 febbraio 1982, n. 31, delle disposizioni pertinenti del decreto ministeriale n. 127/2004 nonché del decreto legge n. 223/2006 è al centro delle preoccupazioni espresse dalla Commissione .In base alla normativa italiana quale essa è stata presentata dalla Commissione e poi spiegata dalla Repubblica italiana tanto nelle loro memorie quanto nelle loro osservazioni orali in udienza, è inesatta la premessa della Commissione relativa al divieto di derogare alle tariffe massime.Risulta espressamente dall’art. 2233 del codice civile italiano, in quanto lex generalis, nonché dall’art. 61 del regio decreto legge, in quanto lex specialis, che l’accordo fra un avvocato e il suo cliente prevale sulla tariffa stabilita col decreto ministeriale n. 127/2004.Soltanto in mancanza di qualsiasi accordo la tariffa è applicata al fine di determinare gli onorari di un avvocato in un caso concreto.Ne discende che l’avvocato e il suo cliente dispongono di una possibilità di determinare, mediante accordo, gli onorari dell’avvocato, ad esempio, in funzione del tempo impiegato, del forfait o anche del risultato.Tale considerazione non è neanche invalidata dall’art. 2, n. 2, del decreto legge n. 223/2006, secondo il quale l’abrogazione delle disposizioni legislative e regolamentari nel settore dei servizi professionali che prevedono tariffe fisse o minime obbligatorie fa salve eventuali tariffe massime.Da detta disposizione discende che il carattere delle eventuali tariffe massime è rimasto immutato.Pertanto, se le tariffe massime applicabili alle attività degli avvocati non avevano l’obbligatorietà nei rapporti fra avvocati e clienti prima dell’adozione del decreto legge n. 223/2006, esse non possono avere siffatto carattere dopo l’adozione del summenzionato decreto.Inoltre, contrariamente all’art. 2, n. 1, del decreto legge n. 223/2006, il termine «obbligatorio» non figura nel n. 2 della stessa disposizione rispetto alle tariffe massime.Tenuto conto della giurisprudenza secondo la quale la portata delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali deve valutarsi tenuto conto dell’interpretazione che ne forniscono i giudici nazionali perché il ricorso della Commissione possa essere accolto, questa dovrebbe provare che i giudici nazionali intendono le tariffe massime nel senso che esse hanno un carattere obbligatorio.Nel ricorso la Commissione ha sostenuto, senza citare esempi concreti, che da una giurisprudenza costante della Corte suprema di cassazione risulterebbe che il divieto di derogare alla tariffa professionale dell’avvocato implica la nullità di qualsiasi accordo in senso contrario fra le parti interessate.La Repubblica italiana ha replicato che la summenzionata giurisprudenza riguarderebbe soltanto le tariffe minime.All’udienza la Commissione si è riferita alle sentenze della Corte suprema di cassazione n. 12297/2001, n. 9514/96 e n. 19014/2007, senza però fornirne copia alla Corte.Essa ha affermato che, in dette sentenze, la Corte suprema di cassazione avrebbe ritenuto che le tariffe massime e minime svolgano la funzione di limitare l’autonomia contrattuale.La Repubblica italiana ha replicato che queste sentenze riguarderebbero ambiti normativi completamente diversi.Nonostante il fatto che le summenzionate sentenze non siano state acquisite agli atti, ho esaminato una di esse, vale a dire la sentenza n. 12297/2001, accessibile su Internet.Da questo esame risulta che essa riguarda soltanto la liquidazione delle spese giudiziarie e non la libertà contrattuale di fissare un onorario nel rapporto fra il cliente e il suo avvocato.Alla luce delle precedenti considerazioni, la ricapitolazione dell'avvocato generale giunge alle seguenti conclusioni.In primo luogo, spetta alla Commissione provare l’esistenza di un obbligo che sarebbe imposto agli avvocati di rispettare tariffe massime e che vieterebbe loro di derogare in via pattizia a dette tariffe massime.La Commissione ha provato l’esistenza di limiti massimi in materia.In realtà, tale elemento non è stato contestato dalla Repubblica italiana.Tuttavia, la Commissione non è riuscita a dimostrare che detti limiti sono obbligatori nel senso che essi vietano agli avvocati di derogare ad essi mediante accordo concluso con i loro clienti.L’esame della normativa italiana relativa al compenso degli avvocati non evidenzia l’esistenza di siffatto divieto espresso di derogare alle tariffe massime, alla guisa del divieto di derogare alle tariffe minime applicabile fino al cambiamento avvenuto col decreto legge n. 223/2006.In secondo luogo, la Commissione non ha dimostrato che, nonostante la mancanza di siffatto divieto espresso, i giudici nazionali interpretano la normativa di cui trattasi nel senso che le tariffe massime costituiscono i limiti della libertà contrattuale degli avvocati e dei loro clienti.Le sentenze della Corte suprema di cassazione citate dalla Commissione in udienza, ma che non sono state acquisite agli atti, non corroborano l’affermazione della Commissione.Inoltre, giustamente la Repubblica italiana ha osservato che le sentenze di cui trattasi riguardano ambiti normativi diversi da quello esaminato nella causa in esame.Dalla ricapitolazione che precede discende che il ricorso della Commissione dovrebbe essere dichiarato infondato.
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