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La Consulta dice no a carcere obbligatorio per gli stupri e la prostituzione minorile
La Corte Costituzionale boccia in parte le norme introdotte dal decreto del 2009 in materia di misure cautelari per chi è indagato per violenza sessuale, atti sessuali con minori e induzione o sfruttamento della prostituzione minorile. Perché il carcere non dovrebbe essere automatico, ma si dovrebbe valutare caso per caso. Il decreto n.11/2009, per la Consulta viola i principi costituzionali nella parte in cui prevede che, quando sussistano gravi indizi di colpevolezza per questi reati, debba essere applicata la custodia cautelare in carcere. E ciò escludendo la possibilità per il giudice di scegliere un altro tipo di misura cautelare, anche quando sia opportuno alla luce di "specifici elementi acquisiti". Nella sentenza n. 265 (il cui relatore è Giuseppe Frigo) depositata oggi, si fa notare che nel regime delle custodie cautelari il tratto saliente "conforme al quadro costituzionale" è quello di "non prevedere automatismi né presunzioni". Piuttosto, si esige che "le condizioni e i presupposti per l'applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta". E "per quanto odiosi e riprovevoli - scrive la Corte - i fatti che integrano i delitti in questione ben possono essere e in effetti spesso sono meramente individuali, e tali, per le loro connotazioni, da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo e rigidamente con la massima misura". Ecco perché la norma impugnata, viola l'articolo 3 della Costituzione, che sancisce il principio di uguaglianza, "per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati", e l'articolo 13, primo comma, "quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale". E infine, l'articolo 27, secondo comma, "in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena". A sollevare il caso di fronte ai giudici della Consulta erano stati i gip di Belluno e Venezia, e il Tribunale del Riesame di Torino.
Fonte: AdnKronos
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