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  • Assicurazione professionale: attenzione alle clausole claims made! Tribunale Milano, sez. V civile, sentenza 18.03.2010 n° 3527

    In passato, la dottrina giuridica nutriva forti perplessità sulla possibilità di estendere alle professioni liberali il sistema assicurativo della responsabilità professionale.

    Nello specifico, la principale difficoltà giuridica all’inserimento della responsabilità professionale nell’architettura del meccanismo assicurativo come disciplinato dal Codice Civile era ravvisata nella nozione di sinistro rilevante ai fini dell’art. 1917, c. 1, c.c., con particolare riferimento all’espressione “fatto accaduto durante il periodo di assicurazione”.

    Infatti, la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza identificavano, e identificano tuttora, il sinistro nel fatto dell’assicurato, ossia nel suo comportamento attivo od omissivo generativo della responsabilità.

    Una simile impostazione, effettivamente, ha creato notevoli difficoltà nella costruzione dei contratti assicurativi della responsabilità professionale, atteso che, in quest’ambito, i danni subiti dalla parte lesa (paziente, ma anche cliente di un avvocato o un notaio per esempio) assumono spesso natura lungolatente, sono caratterizzati cioè dal fatto di divenire percepibili per il soggetto danneggiato in tempi anche molto successivi rispetto al momento in cui si verifica la condotta illecita che li determina.

    In considerazione dell’opzione ricostruttiva maggioritaria sopra richiamata, i primi contratti assicurativi della responsabilità professionale sono stati costruiti sulla formula loss occurance: essi cioè garantivano la copertura del rischio in relazione ai fatti e comportamento dell’assicurato verificatisi durante la vigenza del contratto, a prescindere dal momento in cui il danneggiato, percepito il danno, avanzi richiesta risarcitoria.

    Il ricorso a tale formula garantisce senza dubbio una copertura completa anche nei confronti delle domande risarcitorie late-reported, ossia presentate a contratto scaduto. Di contro, però, le polizze strutturate su questo schema risultavano molto onerose, considerato nell’ingente rischio assunto dall’assicuratore. Ne è derivata la previsione di livelli bassissimi di massimale assicurato associati a premi assicurativi di esoso importo.

    Per ovviare agli svantaggi economici legati alla formula loss occurance, le compagnie assicuratrici hanno elaborato una nuova struttura di contratto assicurativo, fondato sul ricorso alle clausole c.d. claims made.

    Con la clausola claims made (letteralmente “a richiesta fatta”), assicuratore e assicurato pervengono ad una definizione convenzionale della nozione di sinistro rilevante ai fini dell’art. 1917, c. 1 c.c., che è fatta coincidere con la richiesta di risarcimento del danno avanzata dal terzo e non più, dunque, col comportamento del danneggiante-assicurato generativo della responsabilità.

    L’applicazione di una simile opzione, il rischio assunto dall’assicuratore risulta più circoscritto nel tempo, con conseguente vantaggio sotto il profilo dei costi di polizza.

    Per converso, però, occorre segnalare che polizze strutturate sulle claims made nascondono pericolose insidie per l’assicurato, in quanto egli rischia di vedersi recapitare la richiesta di risarcimento in un’epoca in cui non gode più della copertura assicurativa.

    Il professionista, dunque, deve curare con particolare attenzione il rapporto assicurativo, garantendone la continuità attraverso regolari rinnovi annuali, accertandosi inoltre che, in sede di rinnovo, non venga fatta avanzare la c.d. “retroactive date”, ossia la data iniziale della copertura assicurativa. In caso di cessazione del rapporto assicurativo, poi, si rende necessaria la stipula di apposite polizza integrative c.d. “tail-coverage”, precipuamente rivolte a coprire i periodi successivi alla fine del rapporto contrattuale.

    Nella sentenza in esame l’assicurato, nella specie un’azienda ospedaliera convenuta in un giudizio di responsabilità per colpa medica, è incappata proprio in una delle insidie a cui si è appena fatto cenno.

    Nello specifico, l’azienda convenuta si è vista rigettare la domanda di garanzia rivolta all’impresa di assicurazione proprio in quanto, nonostante l’errore medico fosse stato commesso durante il periodo di operatività della copertura assicurativa, il terzo danneggiato aveva formulato la propria richiesta risarcitoria in un’epoca in cui il rapporto assicurativo era ormai cessato.

    Il Tribunale di Milano, con l’occasione, affronta la questione della liceità e legittimità delle clausole claims made, sulla quale si era già espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 5624/2005.

    L’assunto di parte è rappresentato dalla nozione di sinistro data dall’art. 1917 co. 1 c.c. che, ad avviso della Suprema Corte ed anche del Giudice Milanese, si identifica “con il fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione e non nella richiesta da parte del danneggiato…”.

    Partendo da questa premessa, i Giudici di piazza Cavour erano giunti a ritenere pienamente legittima la clausole claims made, “atta a limitare la copertura assicurativa ai sinistri denunciati nel corso della vigenza contrattuale”, ritenendo che essa “non rientri nella fattispecie tipizzata dal legislatore, ma integra un contratto atipico pienamente lecito…”.

    In altri termini, la clausola in oggetto introduce una deroga alla nozione di sinistro dettata dall’art. 1917 co. 1 c.c. che è pienamente lecita in quanto non si tratta di una norma cogente. Una simile deroga, però, vale a modificare la struttura del contratto, a tal punto da doversi parlare di una figura contrattuale atipica, benché lecita in quanto rivolta alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela (art. 1322 c.c.). La modifica, peraltro, che si risolve in una vera e propria limitazione della responsabilità a carico dell’assicuratore predisponente, determina la natura vessatoria della clausola, “… sicché per la sua efficacia è necessaria la specifica sottoscrizione da parte dell’assicurato”.

    Ebbene, la ricostruzione giuridica operata dagli Ermellini non convince appieno il giudice milanese, il quale, pur concordando sulla piena liceità e legittimità della deroga che la clausola claims made determina sull’art. 1917 c.c., sostiene che tale deroga non comporti alcun mutamento della struttura contrattuale e non configura, pertanto, alcun contratto atipico.

    In punto di diritto, viene acutamente osservato che si può parlare di contratto atipico solo quanto lo schema negoziale realizzato dalle parti non sia riconducibile alle figure tipizzate dall’ordinamento. Non è sufficiente che le parti introducano una qualsiasi deroga alle norme che disciplinano la fattispecie codificata, che peraltro sono per la gran parte di natura dispositiva e non cogente, per realizzare una figura contrattuale atipica, ma occorre verificare se la deroga convenzionale incida significativamente sullo schema negoziale determinandone una deviazione.

    La clausola claims made non incide sugli elementi tipici del contratto di assicurazione, perché non elimina né modifica la natura aleatoria del contratto. Tanto più che la clausola in questione non modifica l’oggetto della garanzia, che continua ad essere rappresentato dal fatto illecito dedotto in polizza, limitandosi semplicemente a condizionarne l’operatività alla circostanza che il danneggiato avanzi la relativa richiesta di risarcimento.

    L’opzione ricostruttiva proposta dal Tribunale di Milano, che è pienamente condivisibile sul piano logico e giuridico, è funzionale ad escludere in nuce ogni questione legata alla validità/nullità della clausola e dell’intero contratto e, in un angolo prospettico di più ampio respiro, vale ad aggiungere un ulteriore tassello all’opera di definizione ed assestamento della materia della responsabilità professionale anche sotto il profilo dei meccanismi di copertura assicurativa del rischio.




    Tribunale di Milano

    Sezione V Civile

    Sentenza 18 marzo 2010, n. 3527

    REPUBBLICA ITALIANA

    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

    TRIBUNALE DI MILANO

    QUINTA SEZIONE CIVILE

    Il Tribunale, nella persona del giudice unico Dott. DAMIANO SPERA

    ha pronunciato la seguente

    SENTENZA

    n. 3527/2010

    (pubblicata il 18.3.2010)

    nella causa civile di I Grado iscritta al N. 85946/2005 R.G. promossa da:

    R. C. (C.F. …omissis…), rappresentato e difeso dall’avvocato DI GIUSEPPE ANTONIO, nonché dall’avvocato FERRARI MAURIZIO

    ATTORE

    contro:

    AZ. OSPEDALIERA FATEBENEFRATELLI E OFTALMICO, rappresentata e difesa dall’avvocato DE PASCALE DARIO

    CONVENUTA

    FONDIARIA SPA (C.F. 00818570012), rappresentata e difesa dall’avvocato PENCO FELICE

    TERZA CHIAMATA

    CONCLUSIONI

    Per l’attore: vedi foglio n. 2;

    Per la convenuta: vedi foglio n. 3-4;

    Per la terza chiamata: vedi foglio n. 5-6;

    SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

    Con atto di citazione ritualmente notificato, C. R. conveniva in giudizio l’Azienda Ospedaliera Fatebenefratelli e Oftalmico al fine di sentirla condannare al risarcimento di tutti i danni subiti, quantificati in complessivi Euro 47.687,00 o in quella diversa misura ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, per effetto dell’intervento chirurgico dell’11.03.03.

    Si costituiva la convenuta, la quale concludeva, in via principale, per il rigetto della domanda e, in via subordinata, previa chiamata in garanzia della propria compagnia assicuratrice, Fondiaria S.A.I., chiedeva la condanna di quest’ultima al risarcimento del danno subito dall’attore, ai sensi dell’art. 1917, II comma, c.p.c..

    Si costituiva la terza chiamata, la quale eccepiva l’inoperatività e/o inefficacia della polizza assicurativa di Responsabilità civile verso terzi e/o prestatori d’opera e concludeva, in via principale, per il rigetto delle domande svolte nei suoi confronti; in via subordinata, per la declaratoria di inammissibilità della domanda della convenuta relativamente all’obbligo di garanzia ex art. 1917 cpv. c.p.c..

    Il G.I. ammetteva parzialmente le prove dedotte dalle parti e disponeva consulenza tecnica d’ufficio.

    All’esito dell’istruttoria, le parti precisavano le conclusioni come in epigrafe trascritte; disposto lo scambio delle sole comparse conclusionali, all’udienza di discussione del 27.01.2010, la causa veniva assegnata in decisione, ai sensi dell'art. 281 quinquies cpv. c.p.c..

    MOTIVI DELLA DECISIONE

    Ritiene il Tribunale che la domanda proposta dall’attore meriti accoglimento.

    Infatti, dai documenti prodotti, dall'espletata istruttoria e dalla consulenza tecnica d’ufficio, risulta provato:

    - che, in data 11.03.03, l’attore veniva sottoposto ad intervento chirurgico presso l’Azienda Ospedaliera convenuta a causa della lombosciatalgia destra lamentata nonostante le cure farmacologiche;

    - che, in data 14.03.03, veniva sottoposto ad un secondo intervento chirurgico, a fronte del peggioramento della capacità di flessione dorsale e plantare del piede destro mostrato dopo il primo intervento;

    - che, come accertato dal C.T.U., durante il primo citato intervento (non di speciale difficoltà ex art. 2236 c.c.) si verificavano incongruità tecniche che configurano comportamenti sanitari imperiti;

    - che, come altresì accertato dal C.T.U., vi è un nesso eziologico tra il primo intervento dell’11.03.03 e i danni subiti dall’attore, costituiti dalla paralisi dello sciatico popliteo esterno di destra, con conseguente impossibilità attiva della flessione dorsale del piede destro;

    - che, infatti, i sanitari della struttura convenuta, a seguito del notevole sanguinamento del plesso venoso e dello scarso controllo di esso con la coagulazione bipolare, attuavano l’emostasi con l’apposizione oltre che di Spongostan, anche del prodotto Surgicel con modalità imprecisa e tecnicamente inadeguata;

    - che, per l’effetto, nell’immediatezza postoperatoria l’attore subiva il deficit completo a carico del nervo peroneo e la paralisi della flessione dorsale del piede destro, con evoluzione continua nonostante le persistenti terapie;

    - che tale errore ha comportato lo stiramento della radice nervosa di L5 S1, con sofferenza ischemica e degenerazione neurofibrillare;

    - che, attualmente, la deambulazione dell’attore avviene con evidentissimo steppage e difficoltà nel camminare;

    - che il C.T.U. ha accertato un danno biologico permanente pari al 15% e un danno biologico temporaneo di 40 giorni al 100% e di 60 giorni al 50%;

    - che non sono prevedibili spese mediche future;

    - che questo giudice condivide le conclusioni cui è pervenuto il C.T.U. con metodo corretto ed immune da vizi logici.

    Circa il quantum, ritiene il Tribunale che l’attore abbia certamente subito il danno biologico e cioè quello derivante da illecito lesivo dell’integrità psico-fisica della persona, che, quale evento interno al fatto lesivo della salute, deve necessariamente esistere in presenza delle accertate lesioni, e che prescinde dal danno correlato alla capacità di produzione del reddito. Ai fini del risarcimento, il danno biologico deve essere considerato “in relazione all’integralità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni e i rapporti in cui la persona esplica se stessa nella vita propria vita; non soltanto, quindi, con riferimento alla sfera produttiva, ma anche con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva, e a ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità e cioè a tutte le attività realizzatrici della persona umana” (così la Corte Costituzionale n. 356/1991; v. altresì Corte Costituzionale n. 184/1986).

    Inoltre, recentemente la Cassazione a Sez. Unite (sentenza n. 26972/2008) ha tra l’altro ritenuto che, nell’ambito del danno non patrimoniale, il riferimento a determinati tipi di pregiudizi, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione. Il giudice anziché procedere alla separata liquidazione del danno morale in termini di una percentuale del danno biologico (procedimento che determina una duplicazione di danno), deve procedere ad un’adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

    Ebbene, tenuto conto delle accertate invalidità, dell'età (anni 62), delle allegazioni di parte e delle dichiarazioni dei testi escussi in ordine al mutamento della qualità di vita dell’attore, ora impossibilitato a svolgere sport, passeggiate e a coltivare l’hobby del ballo, dell’ulteriore disagio subito dall’attore per effetto del secondo intervento del 14.03.03, dei criteri tabellari ora adottati da questo Tribunale per la liquidazione del danno biologico e morale, stimasi equo liquidare, per il complessivo risarcimento del danno non patrimoniale permanente da lesione al diritto alla salute, così personalizzato nella misura del 20%, la somma già rivalutata di Euro 40.368,00 e di Euro 8.000,00 per il risarcimento del danno non patrimoniale temporaneo.

    Circa la richiesta di risarcimento del danno esistenziale giova inoltre richiamare quanto ritenuto dalla citata sentenza n. 26972/2008: “Il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità”. In definitiva “di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere”. In ogni caso, laddove il giudice abbia liquidato il danno biologico e le sofferenze conseguenti non residua spazio per il risarcimento di ulteriori pregiudizi esistenziali, perché tutti già ricompresi in quelli già liquidati, risultando altrimenti certa la duplicazione risarcitoria del medesimo danno.

    Pertanto, il danno subito dall’attore va liquidato in complessivi Euro 48.368,00 (somma rivalutata ad oggi).

    Su tale importo devono essere riconosciuti gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell'equivalente pecuniario del bene perduto.

    Gli interessi compensativi - secondo l'ormai consolidato indirizzo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (v. sentenza n. 1712/1995) - decorrono dalla produzione dell'evento di danno sino al tempo della liquidazione; per questo periodo, gli interessi compensativi si possono calcolare applicando un tasso annuo medio ponderato sul danno rivalutato.

    Tale tasso di interesse è ottenuto "ponderando" l'interesse legale sulla somma sopra liquidata, che - "devalutata" alla data del fatto illecito, in base agli indici I.S.T.A.T. costo vita - si incrementa mese per mese, mediante gli stessi indici di rivalutazione, sino alla data della presente sentenza.

    Da oggi, giorno della liquidazione, all'effettivo saldo decorrono gli interessi legali sulla somma rivalutata.

    Pertanto, alla luce degli esposti criteri, la convenuta deve essere condannata al pagamento, in favore dell’attore, della complessiva somma di Euro 48.368,00, liquidata in moneta attuale, oltre:

    - interessi compensativi, al tasso annuo medio ponderato del 2%, sulla somma di Euro 48.368,00, dal 19.06.03 (data di termine della malattia) ad oggi;

    - interessi, al tasso legale, sempre sulla somma di Euro 48.368,00, dalla data della presente sentenza al saldo effettivo.

    Le spese della consulenza tecnica d’ufficio vanno poste a carico della convenuta.

    Consegue alla soccombenza la condanna della convenuta a rifondere all’attore le spese processuali.

    Quanto alle domande proposte dalla convenuta nei confronti della terza chiamata ritiene il Tribunale che debbano essere integralmente rigettate.

    La convenuta stipulava con la terza chiamata un contratto di assicurazione per la copertura dei danni derivanti da responsabilità civile professionale in data 01.03.2001.

    L’operatività di questa garanzia assicurativa è controversa tra le parti.

    Va evidenziato che la polizza contratta dall’Azienda Ospedaliera ha efficacia dal 01.03.2001 al 01.12.2003.

    La questione sorge in relazione all’art. 23 della polizza, a norma del quale: “La garanzia esplica la sua operatività per tutte le richieste di risarcimento presentate all’Assicurato per la prima volta durante il periodo di efficacia della presente assicurazione.”

    Va premesso che il trattamento sanitario di cui è causa è stato posto in essere in data 11.03.2003, quindi durante il periodo di vigenza della polizza.

    Tuttavia, la richiesta di risarcimento danni perveniva all’assicurato soltanto il 29.12.2005, e quindi circa due anni dopo la scadenza della polizza.

    Al fine di godere dell’operatività della garanzia assicurativa, la parte convenuta ha eccepito la nullità e/o l’inefficacia della clausola citata, in quanto non espressamente approvata per iscritto ex. art. 1341 cpv c.c., nonché per mancanza di causa e per contrarietà a norma imperativa.

    La terza chiamata ha chiesto che fosse accertata la tardività, l’improponibilità e/o l’inammissibilità dell’eccezione di nullità e fosse dichiarata, invece, la non vessatorietà e l’efficacia inter partes della clausola in esame.

    Certamente ritiene questo Tribunale che l’eccezione di nullità della clausola non sia tardiva.

    Va rilevato, infatti, che la domanda di parte convenuta è stata proposta nella memoria ex artt. 170/180 c.p.c, in conseguenza delle conclusioni della terza chiamata e, pertanto, tempestivamente e coerentemente con quanto disposto dall’art 183 c.p.c..

    Inoltre, la mancata specifica approvazione per iscritto delle clausole onerose del contratto indicate nell'art. 1341 cod. civ. ne comporta la nullità, eccepibile da chiunque vi abbia interesse e rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ivi compresa la fase di legittimità dinanzi alla Corte di cassazione (vedi, da ultimo, Cass. sentenza n. 16394/2009).

    Sulle altre eccezioni mosse dalla convenuta, giova premettere che la clausola in esame rientra pacificamente tra quelle c.d. claims made, ossia a richiesta fatta.

    Esistono, in materia di assicurazione della responsabilità civile professionale, due diversi schemi contrattuali.

    Lo schema tradizionale, c.d. loss occurrence (“insorgenza del danno”), offre la copertura assicurativa per tutti i rischi dedotti nel contratto, posti in essere nel periodo di vigenza della polizza. Conseguentemente, l’assicurato potrà far valere tale copertura assicurativa fino all’integrale decorrenza della prescrizione (nella fattispecie concreta decennale) del diritto del terzo danneggiato al risarcimento del danno.

    Il contratto contenente la clausola claims made, invece, offre la copertura assicurativa per le richieste di risarcimento che pervengono all’assicurato durante il periodo di vigenza della polizza, indipendentemente sia dal momento in cui si è verificato il rischio dedotto nel contratto, sia dal momento in cui si è prodotto un danno in capo al terzo. Pertanto, la clausola in esame estende l’operatività della garanzia assicurativa anche a tutti i fatti colposi posti in essere prima della stipulazione della polizza (nella fattispecie concreta) fino ai dieci anni precedenti (termine di prescrizione entro il quale il terzo potrà proporre una richiesta di risarcimento).

    Il contratto di assicurazione della responsabilità civile, contenente una clausola claims made, non rientra nel tenore letterale di cui all’art. 1917 primo comma c.c.: “l'assicuratore è obbligato a tenere indenne l'assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell'assicurazione, deve pagare a un terzo, in dipendenza della responsabilità dedotta nel contratto”.
    In particolare, l’inciso - “fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione” - collega direttamente il sorgere dell’obbligo in capo all’assicuratore al comportamento colposo posto in essere durante il periodo di vigenza della polizza, e non alla richiesta di risarcimento, come previsto invece dalla clausola in esame.

    Pertanto, risulta pacifico che la clausola claims made deroga al primo comma del citato articolo.

    Contrariamente a quanto affermato da parte della giurisprudenza, questo Tribunale ritiene che tale deroga sia lecita.

    In primo luogo, va osservato che l’art. 1932 c.c. dispone l’inderogabilità della disciplina prevista ai commi terzo e quarto dell’art. 1917 c.c.; conseguentemente, il primo comma di questo articolo è certamente derogabile.

    In secondo luogo, non merita pregio neppure la tesi secondo cui la disposizione in esame sia da considerarsi implicitamente inderogabile, in quanto “norma primaria e imperativa, di immediata applicazione” (Tribunale di Casale Monferrato, 25.02.1997; Tribunale di Bologna, 02.10.2002 n. 3318; Tribunale di Genova, 08.04.2008). Occorre infatti evidenziare che l’inderogabilità prevista dall’art. 1932 c.c. opera esclusivamente in senso favorevole all’assicurato, e non è neppure sostenibile (come si spiegherà più avanti) la tesi secondo cui la suddetta clausola sarebbe sempre svantaggiosa per l’assicurato.

    Nella fattispecie in esame, la clausola, quindi, deroga nei termini anzidetti all’art. 1917 c.c..

    Occorre a questo punto verificare se tale deroga determini o meno l’atipicità del negozio di assicurazione civile professionale ex art. 1917 c.c., valutando in quali termini la clausola in esame incida sul negozio (tipico) previsto dal legislatore.

    In proposito, la Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “Il contratto di assicurazione della responsabilità civile con la clausola claims made non rientra nella fattispecie astratta tipica prevista dall’art. 1917 c.c., ma costituisce un contratto atipico (da ritenersi in linea generale lecito ex art. 1322 c.c.)”, concludendo che “la clausola claims made, pur non corrispondendo alla previsione legislativa ( art. 1917 c.c.) è lecita” (così la sentenza della Cassazione Civile n. 5624 del 15 marzo 2005).

    Questo Tribunale non condivide la tesi sull’atipicità del contratto in esame.
    Va premesso che si configura un contratto nuovo, atipico, quando le parti predispongono un regolamento di interessi non riconducibile ai tipi aventi una disciplina particolare.

    Tuttavia, va osservato che la disciplina dei contratti tipici è affidata per lo più a norme dispositive, e, quindi, non ogni deroga allo schema astratto previsto dalla legge comporta la creazione di un nuovo negozio.

    Pertanto, al fine di verificare la tipicità di un contratto, occorre individuare gli elementi essenziali del tipo legale al quale le parti abbiano inteso ricondurlo e verificare se tali elementi siano presenti nel rapporto instaurato in concreto.

    La caratteristica peculiare dei contratti assicurativi è l’aleatorietà, derivante dall’esistenza di un rischio che viene trasferito dall’assicurato all’assicuratore; infatti, il legislatore sanziona con la nullità il contratto assicurativo privo di rischio al momento della stipulazione (art. 1895 c.c.).

    Parte della giurisprudenza più recente ha negato la sussistenza di tale elemento nel contratto assicurativo contenente la clausola claims made, motivando che “una clausola di questo tenore è idonea potenzialmente a far venire meno la causa del contratto qualora il terzo danneggiato, per un fatto avvenuto durante l’efficacia della garanzia, richieda il risarcimento quando ormai la garanzia non è più operativa per decorso del termine. Subordina inoltre l’operatività della garanzia alla scelta discrezionale del terzo danneggiato”(così la citata sentenza del Tribunale di Bologna, 02.10.2002 n. 3318).

    Questo Tribunale ritiene, invece, che la clausola claims made non comporti né una diversa natura del rischio oggetto del contratto assicurativo, né il venir meno del rischio stesso. In realtà, oggetto della copertura assicurativa rimane il fatto colposo dedotto in polizza.

    Tuttavia, tale fatto, generatore del danno, diviene “rilevante” soltanto nell’ipotesi in cui la richiesta di risarcimento del danno (in conseguenza di tale fatto) pervenga all’assicurato “durante il tempo dell’assicurazione”.

    In definitiva, nonostante il rischio dedotto in polizza si riferisca - direttamente - all’eventualità che il terzo avanzi una richiesta di risarcimento e - solo indirettamente - al verificarsi del comportamento colposo, l’oggetto della garanzia assicurativa rimane pur sempre quest’ultimo, ovvero il fatto illecito dedotto in polizza.

    Va osservato inoltre che - anche in relazione alla tradizionale tipologia di contratto c.d. loss occurrence - l’obbligo dell’assicuratore di tenere indenne il professionista di quanto questi debba pagare ad un terzo, in conseguenza di un comportamento professionale illecito, sorge pur sempre in seguito ad una richiesta di risarcimento avanzata dal danneggiato, momento da cui del resto decorre anche il termine di prescrizione del diritto ex art. 2952 c.3 c.c..

    Consegue a quanto esposto che il contratto di assicurazione della responsabilità civile contenente claims made è tipico. Questa statuizione, determinata dalla deroga (consentita) all’art. 1917 c.c., esclude in radice che possa ravvisarsi la eccepita nullità della clausola e dell’intero contratto.

    In ogni caso, anche a voler ritenere l’atipicità del negozio, deve dichiararsi certamente sussistente un interesse lecito e meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., in capo ad entrambi i contraenti, alla stipulazione di un contratto contenente la clausola claims made (come del resto riconosciuto anche dalla Corte di Cassazione nella citata sentenza n. 5624/2005).

    Infatti, il danneggiato può avvalersi di tale clausola per ottenere una copertura assicurativa in relazione a fatti verificatisi precedentemente rispetto alla stipulazione della polizza (particolarmente utile se l’assicurato non fosse coperto da altra polizza per il periodo indicato). L’assicuratore, invece, si avvale di questo nuovo schema contrattuale per gestire in maniera più idonea le riserve e per adeguare l’ammontare dei premi richiesti ai massimali di polizza.

    Occorre ora valutare se la clausola in esame debba essere ritenuta vessatoria e pertanto assoggettabile alla disciplina di cui all’art. 1341 c. 2 c.c..

    Alcune pronunce giurisprudenziali hanno motivato la necessità della specifica approvazione per iscritto al fine di richiamare l’attenzione dell’assicurato sul particolare assetto di interessi disciplinato con la clausola claims made.

    Ritiene questo Tribunale che questa considerazione sia irrilevante ai fini della valutazione della vessatorietà della clausola claims made. Infatti, la non conoscibilità della clausola potrebbe avere rilevanza quale vizio del consenso ai sensi degli artt. 1427 e ss. c.c. ovvero in tema di responsabilità precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c. (di recente, la Cass. n. 24795/2008 ha ravvisato la responsabilità precontrattuale anche laddove le parti abbiano infine concluso un valido contratto).

    La Corte di Cassazione ha correttamente affermato che la clausola in esame non è di per sé limitativa della responsabilità ex art. 1341 c.c., e la sua eventuale vessatorietà dipende dallo specifico contenuto che in concreto le parti abbiano inteso attribuirle (apprezzamento rimesso al giudice di merito). Ha inoltre aggiunto che “una clausola contrattuale può essere ricompresa tra quelle che stabiliscono limitazioni di responsabilità a favore di colui che l’ha predisposta a condizione che essa restringa (ad es. sotto il profilo quantitativo, spaziale o temporale) l’ambito di responsabilità così come fissato, con più ampia estensione, da precetti normativi” (Cass. Civ. n. 5624/05); “non possono, pertanto, qualificarsi vessatorie quelle clausole che abbiano, per contenuto, una mera determinazione della effettiva estensione delle reciproche prestazioni dedotte in obbligazione” (Cass. n. 5390 del 16 giugno 1997).

    Alla luce dei citati principi di diritto, ritiene questo Tribunale che la clausola claims made c.d. pura, di per sé non sia vessatoria, perché non limitativa della responsabilità.
    Infatti, nel regime ordinario ex art. 1917 c.c. (contratto c.d. loss occurrence), l’assicurato copre la propria responsabilità in relazione ai rischi che si verificano durante il periodo di efficacia della polizza, ma può far valere tale copertura assicurativa (relativa al fatto commesso durante il periodo di efficacia della polizza, di solito annuale) fino al termine di prescrizione del diritto del terzo di proporre una richiesta di risarcimento danni (nella specie, poiché trattasi di responsabilità medica, addirittura fino ai 10 anni successivi).

    In presenza della clausola claims made c.d. pura, invece, l’assicurazione copre le richieste di risarcimento del danno pervenute all’assicurato nel periodo (di regola annuale) di efficacia della polizza, ma relativamente a tutti i rischi (dedotti in polizza) verificatisi nel decennio precedente, cioè fino al momento in cui esso assicurato potrà ritualmente eccepire la prescrizione del diritto del danneggiato di chiedere il risarcimento del danno.

    Dov’è dunque la vessatorietà?

    E’ di tutta evidenza che, di regola, può ravvisarsi un’equivalenza tra le due ipotesi in esame (contratto c.d. loss occurrence e con clausola claims made c.d. pura) nella valutazione del rischio assicurato e nel rapporto sinallagmatico tra le parti; talora, potrebbe essere addirittura vantaggioso per l’assicurato stipulare la polizza contenente la clausola claims made (si pensi all’ipotesi in cui l’assicurato sia in tutto o in parte privo di copertura assicurativa per i fatti illeciti eventualmente posti in essere in epoca anteriore alla stipulazione della polizza).

    Quid iuris, invece, nell’ipotesi di clausola claims made inserita in un sistema c.d. misto?

    Questa ipotesi ricorre laddove la clausola in esame sia utilizzata congiuntamente con una diversa clausola, loss occurrence o act committed, spesso proprio al fine di limitare l’estensione della garanzia, che si produrrebbe con l’applicazione della claims made c.d. pura.

    In particolare, si verifica spesso l’ipotesi in cui la clausola escluda dalla copertura assicurativa i rischi (condotte colpose e/o eventi dannosi) verificatisi oltre i due-tre anni (o anche più) precedenti alla stipulazione della polizza, fermo restando che la denuncia del terzo deve pervenire all’assicurato durante il periodo di vigenza della stessa.

    Certamente in queste ipotesi si determina una limitazione di responsabilità (in relazione ai rischi dedotti e/o al tempo in cui gli stessi si siano verificati) che riduce il lasso di tempo (altrimenti decennale, fino al decorso della prescrizione) entro il quale rimane fermo l’obbligo dell’assicuratore di tenere indenne l’assicurato.

    Nel caso di specie, la clausola contiene una limitazione di questo tipo, nella parte in cui dispone che: “In relazione ai sinistri originati da fatti colposi posti in essere in periodi antecedenti alla validità della presente polizza, e precisamente dalle ore 00.00 dello 01.01.1998, la presente opererà in differenza di limiti e condizioni rispetto alle garanzie prestate dalle polizze che, qualora esistenti, esplichino la propria efficacia al momento del sinistro stesso”.

    Consegue che la clausola in esame debba essere qualificata come vessatoria, e richiede, quindi, la specifica approvazione per iscritto ex art. 1341 c.2 c.c..

    E’ incontroverso che la clausola non sia stata specificamente approvata.

    L’Azienda Ospedaliera, facendo valere la vessatorietà della clausola, ha eccepito la nullità e/o l’inefficacia dell’intera clausola claims made. Conseguentemente ha invocato altra giurisprudenza che, muovendo dal presupposto (innanzi contestato) dell’inderogabilità dell’art. 1917 c.c., ha ritenuto addirittura che la nullità della clausola in esame comporterebbe la sostituzione di diritto della stessa con il regime ordinario ex artt. 1339 e 1419 cpv. c.c. (v. Tribunale di Milano sentenza n. 5235/09)

    Ritiene il Tribunale che queste conclusioni non meritino accoglimento.

    L’inefficacia prevista dall’art. 1341 c.2 deve incidere esclusivamente sulla parte della clausola che comporta una limitazione della responsabilità.

    Risulta evidente, infatti, che le parti, con il contratto di assicurazione della responsabilità civile contenente la clausola claims made, intendevano regolare i propri interessi con modalità differenti rispetto al regime ordinario di cui all’art. 1917 c.c..

    Se si adottasse dunque il regime ordinario, si violerebbe la libera estrinsecazione dell’autonomia negoziale delle parti. Appare, quindi, più coerente con la volontà negoziale manifestata dalle parti applicare la disciplina prevista dalla citata clausola claims made c.d. pura.

    Inoltre, la nullità dell’intera clausola potrebbe addirittura comportare un’alterazione del rapporto sinallagmatico: l’assicurato potrebbe scegliere se far operare la copertura assicurativa per coprire i rischi verificatisi nei dieci anni precedenti alla stipulazione della polizza, ovvero, facendo valere la nullità dell’intera clausola claims made, potrebbe coprire così anche le condotte colpose poste in essere durante il periodo di vigenza del contratto, in relazione a tutte le richieste di risarcimento effettuate fino alla prescrizione del diritto del terzo danneggiato (soprattutto laddove la nullità operi soltanto a vantaggio di una parte - vedi Codice del Consumo, artt. 34 e 36).

    In definitiva, ritiene il Tribunale che, nella fattispecie concreta, debba dichiararsi la vessatorietà e la conseguente inefficacia della limitazione di responsabilità contenuta nella seconda parte dell’art. 23 della polizza.

    Tuttavia, poiché la richiesta di risarcimento all’assicurato è stata pacificamente effettuata oltre il periodo di efficacia della polizza, deve rigettarsi la domanda proposta dalla convenuta nei confronti della terza chiamata.

    In considerazione della particolare complessità delle questioni affrontate, ricorrono giusti motivi per dichiarare integralmente compensate le spese processuali tra la convenuta e la terza chiamata.

    La presente sentenza è dichiarata provvisoriamente esecutiva ex lege.

    P.Q.M.

    Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando, così provvede:

    - dichiara l’esclusiva responsabilità della convenuta nella produzione dei danni subiti dall’attore per effetto dell’intervento chirurgico dell’11.03.03;

    - condanna la convenuta, al pagamento, in favore dell’attore, della somma di Euro 48.368,00, oltre interessi, come specificati in motivazione;

    - pone le spese della consulenza tecnica d’ufficio a carico della convenuta;

    - rigetta le altre domande ed istanze proposte dalle parti;

    - condanna la convenuta a rifondere all’attore le spese processuali, che liquida in Euro 443,00 per spese imponibili, Euro 397,04 per spese esenti, Euro 4.098,00 per diritti, Euro 6.950,00 per onorario di avvocato, Euro 1.381,00 per spese generali, oltre I.V.A. e C.P.A.;

    - dichiara integralmente compensate le spese processuali tra la convenuta e la terza chiamata.

    - dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva.

    Milano, 18.3.2010

    Il Giudice istruttore

    in funzione di giudice unico

    dr. Damiano SPERA
    Fonte: altalex


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